lunedì 12 dicembre 2011

Un tempo creavano miti

Stan Lee ha messo mano alla creazione di alcuni tra i personaggi più importanti e fondamentali del comicdom internazionale. Che piaccia o meno ha dato una svolta al fumetto e cambiato il modo di intendere il supereroe e le storie che lo riguardano (pare).
Che poi, intendiamoci, posson piacere o meno, e sono d’accordo sul fatto che il protrarsi ad libitum di una serie possa essere un errore. Ma il punto è un altro. 

Stan Lee è co-creatore di personaggi come i Fantastici Quattro, Spider-Man, Hulk, Thor, Iron Man, X-Men, Daredevil, Doctor Strange.

Stan Lee è tra quegli autori che hanno umanizzato il supereroe, hanno complicato la sua vita, l’hanno resa banale, difficile, assurda, problematica, talvolta felice. Simbologia come se piovesse.

L’ultima “fatica” creativa di Stan Lee è questa roba qua:


Dalla collaborazione con Yoshiki (batterista/pianista e mente di X-Japan, Violet UK, S.K.I.N.)  Lee tira fuori dal cilindro questo musicista che viene trasformato in una specie di superninja da un fulmine che – attenti che qui arriva il divertimento – lo colpisce dopo aver colpito un pipistrello. Nel punto dove Yoshiki (eeeh si) è stato colpito compare un tatuaggio a forma di drago (???). Tutto questo per fermare l’armata oscura di Oblivion dalla distruzione della Terra.
No comment.

Quanto poi si pensa che il peggio sia passato c’è una bella pagina con un virgolettato di Lee:

“When I met Yoshiki, I was so impressed with his musical talents and unique creative eye that I knew immediately I wanted to work with him on something special where we could combine both our strenghts. Creating a music super hero character was the natural evolution of our efforts.”
Sbaglio o non c'entra niente?! Se uno è un buon musicista è automaticamente uno con cui lavorare per scrivere un fumetto? 
Di nuovo "Il Sorridente" dimostra di non starci più con la testa. Ancora una volta l’innalzamento della mortalità sembra non essere un fattore universalmente positivo.

martedì 29 novembre 2011

Shrapnel post

Mentre aspetto di potervi dire qualcosa di nuovo vi dirotto su alcune recensioni di materiale piuttosto interessante che ho preparato negli ultimi tempi per Comicus.
Sono in gran parte albi provenienti dall'ultima edizione di Lucca Comics & Games (edizione di cui mi sarebbe piaciuto scrivere una specie di diario di bordo giornaliero, macché...) e sono tutti interessanti per un loro motivo, non ultimo quello di aver attirato la mia attenzione.
Cominciamo con due pezzi, uno più datato e uno più recente, dedicati al GG Studio, giovane etichetta italiana sbarcata da poco anche negli States, di cui ho analizzato Extinction Seed #0 e The One #3, nella sua nuova edizione cartonata da libreria.
È poi la volta di due piccole autoproduzioni di pregiata fattura, a partire da Eschaton #1, prima parte della nuova serie annuale firmata dal duo Lise-Talami, che vi porterà in un futuro postapocalittico fatto di padri e piadine; si continua con Amenità - Capitolo 1: Dinosauri, pregevole albetto realizzato da autori vari a tematica dinosauresca.
Si conclude il tutto con l'opera prima di Francesco D'Isa, il tozzo volume semplicemente intitolato I., dissertazione/indagine di un poliedrico personaggio sulla propria identità.
Buona lettura!

venerdì 18 novembre 2011

Rispetto per i morti

Il fumetto è un microcosmo che negli anni ha cercato di disabituarci alla fissità delle cose. Specie per certo fumetto mainstream non è mai detta l’ultima parola, specie quando la parola è “fine” o “morte”.  Un caso a parte è, invece, quando “fine” e “morte” vengono a coincidere.
Un episodio celebre è questo:


Sfortunatamente non sono più in grado di rispettare i ritmi richiesti da una striscia quotidiana. La mia famiglia non desidera che Peanuts venga continuata da qualcun altro, perciò annuncio il mio ritiro
Questo appare sull’ultima striscia realizzata da  Charles M. Schulz (per la cronaca, la M sta per Monroe), pubblicata postuma domenica 13 febbraio 2000 (Schulz era morto il giorno precedente).

Poi accade che esce questa cosa per BOOM!


Sulla copertina di questo speciale numero 0 si legge “NEW STORIES!”, che per chiunque non sappia veramente mezza parola d’inglese significa “nuove storie”. Ora… eeeeh?

La mia famiglia non desidera che Peanuts venga continuata da qualcun altro

Non mi ha convinto fin dall’inizio. L’operazione fa storcere il naso, però magari – ho pensato – si sforzano di fare un lavoro fatto bene. Come dire, un’aberrazione ben fatta.
Sicché aprendo l’albo, oltre a quattro pagine di “Classic Peanuts”, storie di Schulz ricolorate (in modo un po’ insipido) ci sono due storie nuove (Carnival of the animals di Ron Zorman e Lisa Moore, Woodstock's New Nest di Vicki Scott, Paige Braddock e Lisa Moore) e il preview di un nuovo graphic novel.

La mia famiglia non desidera che Peanuts venga continuata da qualcun altro

La cosa che mi disturba di più è il cambio di formato. Tradizionalista? Nostalgico? Boh… vedere i Peanuts muoversi su tavole formato comic book non fatte da strisce potrebbe esser per qualcuno un gesto di innovazione, ma sinceramente non ne vedevo il senso. Il tutto sembra fatto molto a casaccio, manca lo spessore grafico e culturale di Schulz (ovviamente) e il risultato sono due storie scritte male, che non fanno né ridere né pensare (ma i tempi comici dove li hanno imparati? Al bagaglino?), e disegnate peggio: la linea è sterile, svuotata della sua vibrante emotività originaria, e le grandi dimensioni di figure così tanto semplificate fanno sembrare il tutto molto stupido.
Questo per non parlare dello storytelling, totalmente inappropriato e talvolta anche decisamente errato; si vedano in proposito le ultime due tavole della seconda storia originale, in cui la scomposizione in dodici vignette quadrate è tanto infantile quanto inutile a livello di linguaggio.

La mia famiglia non desidera che Peanuts venga continuata da qualcun altro

Questo per non parlare dell’anteprima di Happiness is a warm blanket, Charlie Brown!, graphic novel in uscita ora. Non parliamone. Meglio archiviare tutto, come se fosse stato un brutto sogno.

La mia famiglia non desidera che Peanuts venga continuata da qualcun altro

Che brutto mondo.

venerdì 11 novembre 2011

10 cose che non dovrebbero mancare in un fumetto pt.3: consapevolezza del linguaggio

Parlo di linguaggio riferendomi, ovviamente, non alla parola. Il fumetto come linguaggio, medium se vogliamo. Perché se negli anni d’oro il fumetto ci mise un attimo a dimenticarsi della realtà per abbracciare il linguaggio dell’arte, del cinema, del sogno, una volta trovata una propria dimensione per molti è stato considerato come qualcosa da esplorare solo ed esclusivamente a livello di contenuti.
Bisogna tenere sempre a mente che le sue potenzialità sono infinite, e che il suo unico limite è nella mente di chi lo crea… ed è anche facile infrangerlo, volendo, perché risiedendo nella mente basta applicare quella pressione in più da far saltare il blocco.

Richard McGuire. Richard McGuire è uno che ha ben capito questo concetto. Come lui molti altri, ma hanno dovuto spendere molte pagine per dimostrarlo, mentre a McGuire sono bastate le sei pagine di Here (pubblicato nel 1989 sul primo numero di “Raw” vol.2). Di cui non parlerò, perché le potete trovare qui sotto (o a questa pagina di The Comics Bureau, assieme al cortometraggio tratto da Here) e preferisco lasciare che parlino da sé. 

[ovviamente cliccate per ingrandire]








venerdì 28 ottobre 2011

Un po' di cose mentre s'invaligia

Si è sempre più complesso. Nel mentre ora s'invaligia cose per Lucca, che ancora non ho capito cosa portare.
Visto che non ho avuto tempo di scrivere contenuti "originali", e che il post 101 ha avuto una grab carica con l'ultimo TP di Unknown Soldier direi che oggi posso limitarmi a segnalare un po' di cose, facendo la figura di quello che ha fatto pur non avendo niente di appositamente scritto.

Incominciamo con l'ultima cosa approdata sulla rete ma che storicamente è nata prima, vale a dire l'intervista a Moreno Burattini pubblicata su La Luna di Traverso uscita per lo scorso Parma Fantasy. Un numero già di per sè cazzuto, perché per la prima volta apre in modo esplicito al fumetto e perché le brevi storie pubblicate sono buone.
Un numero impreziosito da una cover d'eccezione, realizzata per l'occasione dai tipi di Lateral Studio.
Un numero che può vantare, come chicca, l'intervista a Moreno Burattini, per l'appunto, che si concentra sulla scrittura per il fumetto, sul suo rapporto con la scrittura di narrativa, e cerca in qualche modo di metterne a nudo i punti principali.

Seguono a ruota tre speciali realizzati per Comicus che hanno saputo sottomettere il poco tempo disponibile per realizzarli, diventando qualcosa di compiuto e gradevole.

Il primo, sempre procedendo dal più datato al più recente, è dedicato a 99 Giorni, graphic novel noir scritto da Matteo Casali e disegnato da Kristian Donaldson per la collana noir di Vertigo (Vertigo Crime). Intervista a Matteo e tavole in anteprima esclusiva del volume italiano, che chi è a Lucca oggi potrebbe già stare stringendo nelle mani.

Il secondo è dedicato a Erotico Nero ambizioso e - a mio parere - ben riuscito tentativo di un manipolo di autori italiani di realizzare una breve raccolta di racconti erotici dallo sguardo oscuro, cosa che i sei autori coinvolti (Susanna Raule, Valentino Sergi, Adriano Barone, Simone Buonfantino, Dario Viotti e Valentino Biagetti) sono riusciti a fare affrontando un argomento storicamente delicato senza sembrare dei maniaci o dei bambini di 5 anni. Anche questo volume sarà un'uscita lucchese, quindi accalcatevi allo stand Absoluteblack per comprarlo!

Last but not least, uno speciale su Nirvana, la nuova (mini)serie di Emiliano Pagani e Daniele Caluri (autori di Don Zauker ma anche di tante altre cose) pubblicata da Panini e, indovinate un po'?, anch'essa in uscita a Lucca.

Detto questo... buona lettura e alla prossima settimana! (si spera)


lunedì 10 ottobre 2011

Unknown Soldier TP4

Unknown Soldier TP 4 – DC Comics/Vertigo, brossurato, 128 pagine a colori, 14.99 $
Testi di Joshua Dysart, disegni di Alberto Ponticelli e Rick Veitch


Allora, diciamo subito che questo pezzo relativo al quarto TP di Unknown Soldier non è per chi ne è a digiuno, e si addentrerà nella trama palpandola, parlando apertamente di quel che succede, senza trattenersi. Ad ogni modo ne ho già parlato in occasione dell'uscita del primo TP, che poi significa trade paperback, che poi vuol dire semplicemente volume (brossurato, non cartonato, nel qual caso si parlerebbe di HC, o hardcover).
Tutto questo per dire: se siete amanti di Unknown Soldier ma non avete ancora letto il quarto TP fermatevi! Se siete tra quelli che assolutamente non vogliono aver niente a che fare con un pezzo che svela dettagli importanti di trama fermatevi!
Se invece l’avete letto, non vi importa che io vi dica come finisce o ve ne fregate e preferite leggere un post scritto bene piuttosto che un volume a fumetti scritto egregiamente e disegnato alla grande continuate pure.
Insomma SPOILER A FRAMMENTAZIONE, da qui in giù.




Il quarto TP si apre con un disegnatore ospite d’eccezione, Rick Veitch, ad illustrare la nascita del principale strumento bellico nelle rivolte e nelle guerriglie, l’AK-47. AK sta per Avtomat Kalashnikov, mentre 47 è l’anno in cui è iniziata la produzione di questo tipo di fucile, pensato dal Sergente Kalashnikov per far fronte all’assenza di fucili a corto raggio tra le fila dell’esercito russo. Unknonw Soldier 21 segue la storia di un singolo AK-47, raccontata per bocca dello stesso fucile, partito da Addis Abeba nel 2007 e giunto fino al Sudan, passando per l’Uganda. 
Nel 1947 Kalashnikov ha cambiato il modo di fare la guerra, aprendo alla possibilità della guerriglia, nel bene o nel male. Un’arma di liberazione o uno strumento di morte? Come si dice anche in queste pagine forse è impossibile distinguere tra le due cose; o meglio non è lo strumento che si carica di un valore positivo o negativo, ma chi lo impugna. Nonostante tutto la citazione di Milhail Kalashnikov riportata nella pagina finale è abbastanza indicativa, “I would prefer to have invented… a lawnmower” (Preferirei avere inventato una falciatrice): e infatti ha dato addio, in epoca recente, all’industria bellica per abbracciare quella dei superalcolici, con il lancio sul mercato della Vodka Kalashnikov, non a caso imbottigliata in bottiglie a forma di AK-47. Soldati morti o cirrotici, l’industria Kalashnikov non molla la strada della distruzione dell’individuo.
Solo apparentemente collaterale, questo episodio avrà una grande rilevanza nell’economia della serie e della sua conclusione.


Subito dopo attacca il ventiduesimo numero, con il quale si ritorna al team creativo originario per l’ultima cavalcata. Con un’ottima cover realizzata Dave Johnson ha inizio Beautiful World, storyarc conclusivo che getta luce sul mistero di Moses Lwanga. 
I due momenti su cui si regge tutta la struttura narrativa di questi ultimi quattro episodi sono il ricordo dell’incontro avvenuto nel 1997 tra il protagonista e il primo Unknown Soldier, quello che nel 1941 combatté nella seconda guerra mondiale (lo stesso di Joe Kubert?), e il suo triste epilogo. Su questa storia si innestano e trovano il loro compimento, la storia di Sera, quella di Momolu e, in un certo senso, quella di Jack Lee Howl.
Chi è Moses Lwanga? O forse è meglio chiedersi chi sia il Soggetto 9 e perché sia lui la chiave di volta di tutto il numero, che si addentra nella psiche e nei ricordi del suo protagonista per svelare la più scomoda delle verità: Moses Lwanga non esiste, lui è il vero sconosciuto (più un Unknown Doctor che un Unknown Soldier), lui il vero estraneo, l’identità di troppo impiantata in una persona scomoda che, pian piano, dal primo volume è rientrato in contatto con il vero se stesso, che gli parla nella testa e prende il controllo delle sue azioni.
L’Unknown Soldier originale è qui ritratto allo stesso modo dell’AK-47 del primo capitolo di questo volume. Una macchina da guerra in grado, da sola, di stravolgere l’esito di una guerra. Un’arma che, nel tentativo di trovare una progenie, ha optato per creare in laboratorio un uomo di pace (Moses); impugnato dalla rivolta (e impugnandola a sua volta) il soldato ritrova la sua strada verso la superficie, sostituendosi gradualmente all’uomo di guerra.
Joshua Dysart usa uno stratagemma narrativo molto interessante, ribaltando la prospettiva di chi legge ma senza mancare di rispetto alla sua intelligenza: lo fa gradualmente, sin dall’inizio, sin da quando Moses Lwanga è costretto a bendarsi il volto. E allora, con il venir meno del volto viene meno anche la certezza dell’identità. Potrei sbagliarmi, ma leggendolo si ha l’impressione che questa fine fosse decisa fin dall’inizio, pronta in un cassetto per il momento della chiusura.
Sta di fatto che il capitolo dedicato a Sera è uno dei migliori, a mio parere, di tutta la serie, e non solo per il modo in cui l’autore sceglie di spostare il proprio punto di vista sul personaggio che, per tutta la durata del primo numero, è stato il contrappeso di Moses. Dopo i primi numeri disegnati con lo stile rapido e sporco pre-Blatta e i numeri di Dry Season disegnati con lo stile di Blatta, che alle chine affianca una maggiore attenzione a sfumature ed ombre, Alberto Ponticelli sceglie per questo albo numero 22 di mescolare le due cose. Questa scelta ha due diversi momenti: una fotografia (che occupa un’intera vignetta ed è incredibilmente in contrasto con quelle che lo circondano) che potrebbe stare ad indicare il momento in cui la donna prende la decisione di inseguire il soldato e scoprire la verità sul marito, un singolo pensiero cristallizzato che, assieme alla successiva sequenza del viaggio, resa con la stessa tecnica, rappresenta il suo momento di svolta (tutta questa è ovviamente un’interpretazione personale, ovviamente).
Nella parte successiva, fino alla fine del volume, si torna allo stile che ha definito la serie; ruvido e spigoloso, il lavoro di Ponticelli restituisce figure in tutto e per tutto dinamiche, mai fisse, mai statiche, sempre pulsanti, pervase da tensione muscolare o nervosa. Anche i morti sembrano sempre un po’ più vivi, sempre più prossimi alla morte, quasi intrappolati al penultimo respiro. In questo sta la brutalità della guerra. In questo sta la forza di un fumetto come Unknown Soldier.


Sul finale c’è poco da dire, e allo stesso tempo molto. Il Subject 9 muore e non riesce a spezzare il giogo dell’LRA. Avrebbe potuto? Si. Sarebbe stato verosimile? No. Dysart sceglie di rimanere aderente alla realtà pur giocando nel campo della finzione. Una macchina da guerra riprogrammata che sfugge alla programmazione può essere una scelta dettata da una grande immaginazione, la fine della guerra civile, invece, per quanta immaginazione ci possa essere, è ben lontana. Nel primo volume (Haunted house) a un certo punto si diceva che solo l’Africa può liberarsi della guerra civile e cambiare se stessa, senza la violenza. Alla luce di questo l’africano americanizzato, cresciuto nella violenza e due volte rinato negli Stati Uniti, che prima lo corrompono e poi lo manipolano, quante possibilità aveva di mettere fine alle stragi? Proprio lui che, come un AK-47, ha mietuto così tante vittime…
Dysart consegna Joseph Kony alla vita e Moses Lwanga/Unknown Soldier alla morte (pur donando al suo “lato buono” la pace meritata). Non poteva fare altrimenti.
L’elemento chiave della conclusione sta nell’ultima pagina: un ragazzino armato di arco e frecce si benda il volto prima di pattugliare la zona. È una consegna, un passaggio di poteri. È la potenza del simbolo che porta in sé il peso della lotta per la libertà.
It’s not over for the unknown soldier.

mercoledì 28 settembre 2011

ooooooooh

Son passate sei settimane, ti dai una mossa?

Lo so, lo so.
Adesso arriva, abbiate fiducia.

mercoledì 10 agosto 2011

Il Viaggio

[Riciclo questo post da Comics&Co. perché mi piace molto il volume in questione e perché mi ha convinto parecchio quel che ho scritto].

Il Viaggio di Yuichi Yokoyama mi è stato consigliato dal sempre saggio e preparato Claudio Calia, poco tempo fa [che ha sua volta, mi ha detto in seguito, lo ha letto sotto consiglio di Alberto Talami]; Claudio me ne ha parlato con un tale entusiasmo che non ho potuto starne lontano.
Yuichi Yokoyama è un artista giapponese riscopertosi fumettista, o mangaka, attivo nel circuito delle riviste underground. Il Viaggio è un lungo racconto muto i cui protagonisti sono tre persone che compiono un viaggio in treno (probabilmente uno Shinkansen) da un luogo a un altro. Di per sé è una trama molto semplice e lineare, specialmente considerando che questa è praticamente l’unica cosa significativa che i tre fanno: arrivano in stazione, fanno i biglietti, accedono alla banchina, salgono sul treno, prendono posto e poi scendono. Tutto ciò che sta nel mezzo è una collezione di sguardi dei tre, sul treno così come fuori. Incontri che durano la lunghezza di un respiro, paesaggi che scorrono come un film fuori dai finestrini, che mutano e si susseguono, animali in libertà. Valli, montagne, foreste, ruscelli, allo stato selvaggio o dominate dalla tecnica degli uomini con i loro insediamenti, le monumentali costruzioni, le loro vite. Vite che si sfiorano, relazioni umane che durano come l’incontro di due sguardi dai finestrini di due treni che viaggiano in verso opposto, e che forse non si incontreranno più.
Con uno stile semplice, fortemente pop, sintetico ma con continui giochi grafici, Yuichi Yokoyama descrive un viaggio di qualche ora (il biglietto emesso all’inizio marca 9:42, l’orologio di uno dei personaggi alla fine indica le 13:55) con il quale analizza la situazione di una società ancora molto rigida (forse il significato dei volti tutti uguali e simili a maschere, raramente espressivi) e votata alla norma, all’efficienza, alla velocità.
Il treno incarna dunque il ritmo frenetico della società nipponica che, letteralmente, ogni giorno attraversa un mondo in cui c’è ancora molto da scoprire e da ammirare, tanto da cui rimanere incantati, molte persone con cui entrare in contatto. Tutto questo viene però privato all’uomo da un sistema che gli impone un ritmo non più naturale. E allora quello che vede è mosso, sfocato, limitato dalle condizioni del finestrino. Ma allo stesso tempo, allora, il finestrino diventa un nuovo schermo sul mondo, che nella frenesia quotidiana ricorda all’uomo che in fondo, attorno a lui, c’è anche dell’altro, qualcosa di cui è bene si riappropri.
Yokoyama firma quella che, a mio parere, è una denuncia di un’epoca, come già Taniguchi in raccolte come Gourmet o L’uomo che cammina: Yokoyama non ci sta forse invitando a rallentare? A guardarci intorno… A bloccare il panorama che vediamo scorrere come un rullo e a riappropriarci del nostro tempo. Tutte quelle linee cinetiche che riempiono le tavole sono un continuo e ossessionante monito, non riesci a togliertele di mezzo; e tra una e l’altra è solo un campo bianco, al punto che spaccano l’immagine, impediscono di vedere, imponendo uno sforzo ulteriore.
Il VIaggio non è certo un fumetto da ombrellone. O forse si, se avete molta pazienza.
Il Viaggio (Canicola, 2011, 208 pagine in bianco e nero, 17 euro). Testi e disegni di Yuichi Yokoyama.

venerdì 8 luglio 2011

10 cose che non dovrebbero mancare in un fumetto pt. 2: orientamento.


Questo più che un capitolo in sè è un capitolo a parte, una postilla di quanto si è detto nell'episodio precedente.
Di fatto ci troviamo ancora nel campo della coerenza, ma si tratta più che altro di orientamento, ovvero sapere dove ci si trova nel mondo (spazialmente e temporalmente).
Spiego. Ci pensavo ieri in merito alla serie tv (ormai defunta) V, ma è una cosa che possiamo facilmente applicare a una gran parte di fumetti di zombie, mostri e a qualsiasi storia che abbia una propria nicchia narrativa bene precisa.
Il concetto di base è che, per quanto i mondi creati da molti scrittori vogliano essere quello in cui i fruitori del prodotto vivono effettivamente, molte volte questi due mondi differiscono da un piccolo e insignificante dettaglio che potrebbe cambiare la situazione: la produzione di fiction del mondo reale in quel mondo di fiction non è mai arrivata.
La frase scatenante è stata "Cazzo però se i 'buoni' di V avessero visto Visitors non si sarebbero mai lasciati fregare". Ammetto che è paradossale. Molto paradossale. Però mi ha portato a pensare a cose tipo gli zombie. E allroa ho realizzato che il 99,99% di fumetti di zombie comprendono persone che il più delle volte vedono uno zombie e non hanno la più pallida idea di che cosa abbiano davanti. E questo non accade solo per i personaggi più facili a cadere nella spirale dell'apocalisse zombie, come il vecchio sbandato o la signora snob, personaggi di una certa età o levatura che magari non hanno mai visto Night of the living dead di George Romero; ragazzini, giovanotti, umani di mezz'età: nessuno ha idea di cosa sia uno zombie. Ma non li guardano i film? Non li leggono i libri? E i fumetti?
"Ommioddio cos'è quella cosa?" sentirete nel 70% dei casi.
Stessa cosa dicasi per i vampiri. Se vedi uno che si aggira di notte, e che dopo un po' ti accorgi che si aggira SOLO di notte, e sugge sangue e ha canini straordinariamente lunghi vuol dire che è un vampiro. Non hai mai letto Dracula? Mai giocato a Castelvania? Mai visto Dracula?  o... dico... Blade? Buffy? O quant'altro?

Con l'unica eccezione filmica di The Monster Squad (uscito in Italia con il titolo Scuola di mostri) in cui un gruppo di ragazzini le suonava a Dracula, Frankenstein, l'uomo lupo, il mostro della palude e la mummia con un know-how impressionante (e in modo epico, peraltro, qualcuno si ricorda la scena del calcio nelle palle all'uomo lupo?) tutta la produzione di fiction riguardante i mostri (tutta quella che ho letto, perlomeno, e ne ho letta tanta) è assolutamente all'oscuro di quello che è stato fatto prima. In OGNI film di vampiri il Dracula di Stoker non è MAI STATO SCRITTO (e, dico, io ce l'avevo sul mio testo di letteratura inglese al liceo, non è una di quelle cose che puoi ammettere non sia mai esistita). E i vetusti cacciatori di vampiri di film contemporanei che sanno come gestire l'emergenza vampiri generalmente lo sanno per via di misteriosi grimori del passato.
Tutto il resto è: "Ommioddio cos'è quella cosa?".

Perché ho detto 99,99% prima?
Ve lo state chiedendo da un po', vero? Solo che la cosa di Monster Squad vi ha distratti. Compratelo, noleggiatelo, scaricatelo, rubatelo... l'importante è che lo guardiate. Ne ho un ricordo davvero piacevole.
Detto questo. Perché prima ho detto 99,99%?
Semplice. Per via del fumetto di cui volevo parlare oggi, e che - assieme a Monster Squad - compone quel piccolo 0,01% che ci lascia sperare in un futuro migliore.

Il fumetto in questione si chiama Zombies Calling, un piccolo albo scritto da Faith Erin Hicks e pubblicato negli States da SLG.
Joss, la protagonista, è una grande patita di zombie movie, così nel momento in cui si trova a dover fronteggiare l'orda sa esattamente come comportarsi. Seguendo le regole ricavate dai film di zombie, quindi, Joss istruisce i suoi amici, Robyn e Sonnet, sull'abc della sopravvivenza nella zombie apocalypse (per quanto sia lei stessa ad affermare che la sopravvivenza è qualcosa di ambiguo nei film di zombie).
Ovviamente la questione zombie è un pretesto per portare la situazione su altri livelli, affrontare altre problematiche, in questo caso la vita dei tre giovani studenti universitari, i loro sogni, le loro sfaccettature personali); ma non troppo.
In ogni moment
o critico Joss è pronta a risolvere la situazione servendosi delle "regole", convinta che siano l'unica cosa in grado di salvarli; cosa che ha anche dei risvolti piuttosto comici, come quando la ragazza afferma che nei film di zombie ci sono sempre armi cariche in posti improbabili, quindi non resta che guardarsi intorno per trovarle, magari in bagno.

Due parole sull'autrice, Faith Erin Hicks, canadese. Terza sorpresa in ambito fumettistico proveniente dal Canada, dopo Jeff Lemire e Bryan Lee O'Malley. Nasce come autrice di webcomic con Demonology 101 e Ice, poi è la volta di Zombie Calling e The War at Ellsmere e dell'ultimo Brain Camp (scritto da Susan Kim e Laurence Klavan).
La Hicks ha uno stile grafico semplificato ma con dettagli, vagamente caricaturale (hanno tutti un naso importante, si direbbe) e talvolta più stilizzato e sintetico; gli zombie sembrano usciti da Plants VS Zombies, in compenso, molto poco decomposti, lontani da quelli di The Walking Dead o Dead World, per citarne due (ma... c'è un ma che ha un valore narrativo quindi lo taccio). Il tratto a volte ricorda quello di O'Malley, soprattutto - da ciè che si può vedere dalle immagini disponibili in rete - per quanto riguarda The War at Ellsmere.

lunedì 27 giugno 2011

Zapruder 25 – La patria tra le nuvole. Il Risorgimento a fumetti.

È da poco uscito in tutte le librerie che abbiano un reparto dedicato alle riviste (ma non i rotocalchi fashion che vi piace leggere dal barbiere o dal dentista) il numero 25 di Zapruder, rivista di studi storici molto attenta al presente e caratterizzata da uno sguardo trasversale sul mondo, la storia e le fonti.

Questo venticinquesimo numero, che con coraggio sceglie di affrontare il tema del Risorgimento italiano a partire dal fumetto. Ok, non c’era una produzione a fumetti all’epoca, e infatti i vari contributi si concentrano sul significato del Risorgimento nella produzione seguente, in relazione a momenti topici della storia italiana. Trovate tutti i dati relativi ai contributi a questo link: http://www.storieinmovimento.org/index.php?sezione=1

Accade che in tutto questo compaia anche un mio intervento, scritto a quattro mani e a due accette con Gianluca Maestri, egli che è in grado di suonarvele senza muovere un dito, semplicemente argomentando; intervento che ruota attorno a un capolavoro dell’errore a trecentosessanta gradi intitolato Storia della Lombardia a fumetti, più volte bastonato da stampa e politica, accusato di revisionismo della storia d’Italia in salsa leghista, nonché ricettacolo dell’errore.
Quello che ci premeva, tuttavia, era usare questo fumetto come documento per poter leggere una faccia dell’Italia attuale.
Ci siamo riusciti? Egregiamente.
È stato facile? Più si che no.
È un buon saggio? È un gran saggio, e dovreste leggerlo. Quindi ora alzatevi dalle vostre sedie ergonomiche e catapultatevi con garbo in una libreria a comprare una copia [lo trovate anche in biblioteca, ma in questo caso fate pietà].

giovedì 9 giugno 2011

Cosa fai questo weekend?

Sabato 11 e domenica 12 giugno a Parma, e più precisamente al Parco Eridania, si terrà la quarta edizione di ParmaFantasy, che per la prima volta presenterà una vasta area dedicata al fumetto. Oltre agli stand degli editori ci saranno mostre, incontri con gli autori, session di firme e sketch e conferenze. Una partenza a vele spiegate verso il futuro (per citare Michael Moorcock e farvi sentire un po’ più ignoranti), che mi vede al timone di tre conferenze.

Nella fattispecie mi troverò:

- Sabato 11, dalle ore 16:00 alle ore 17:00, alla Sala Fenice con le giovani promesse italiane per Marvel chiama italia; con me ci saranno Elia Bonetti, Mirco Pierfederici, Marco Santucci, Matteo Scalera e Alessandro Vitti.

- Domenica 12, dalle ore 11:00 alle ore 12:00, sempre alla Sala Fenice, io e Luca Enoch vi parleremo di Hit Moll (e non solo); più lui che io, in effetti.

- Domenica 12, di nuovo, dalle ore 15:00 alle ore 17:00, alla Sala Idra, farò da spalla a Giuseppe Camuncoli che racconterà ai presenti vita, morte e miracoli.

Comunque QUI trovate tutto il programma dell’area comics, ci sono un sacco di cose interessanti da seguire e da vedere. Se poi proprio non riuscite a fare a meno di me sapete dove trovarmi.

E non vi dimenticate il referendum!

martedì 7 giugno 2011

ANTIFA!nzine 1

È un periodo che bisogna prendere delle boccate d’aria crasse, che poi non sai quando riesci a riemergere. Avrei voluto farlo molto prima, quando ancora ANTIFA!nzine 1 doveva essere presentato e pubblicato, perché io posso, c’ho i poteri. Mi sa tanto, però, che questa volta i poteri non han tenuto conto della riserva d’aria, e allora eccomi qui a rimediare come posso, forte dell’onda lunga.



Il primo numero di ANTIFA!nzine è parecchio divertente da leggere.
Il primo numero di ANTIFA!nzine è parecchio deprimente da leggere.
Dipende dalle modalità di approccio. La maggiorparte delle storie considerano in chiave satirica, cito, “quelle realtà razziste, xenofobe o esplicitamente neofasciste che infestano i nostri territori e che vorrebbero imporre i loro ‘valori’ a forza di aggressioni ai danni di militanti di sinistra, studenti e migranti”. Il risultato è che ne parlano, ne mettono a nudo i problemi, ti fanno vedere in che razza di mondo viviamo. Già. Ti fanno vedere in che razza di mondo viviamo. E qui subentra la depressione. Perché mette a nudo la situazione in cui siamo costretti a (soprav)vivere.

Come in ogni testata antologica, questo primo numero di ANTIFA!nzine ha i suoi alti e bassi, stilistici e narrativi, ma fa il suo dovere nel puntare il dito e dire che c’è qualcosa che non va, e che è grosso, e scomodo. È troppo facile cadere nella retorica parlando di fascismo, razzismo e xenofobia; son cose che si commentano da sole. Sarebbe troppo facile, dal lato opposto, accusare le storie (o analisi, o considerazioni… già tutto assume una sfumatura differente) a fumetti contenute in questa quarantina di pagine di essere banale propaganda scritta male e disegnata peggio; si disse qualcosa simile per La Ministronza di Spataro, no? Ecco, no… il livello, seppur come s’è detto discontinuo, è buono, in certi casi alto, in certi casi profondo. A volte molto diretto (come nel contributo di Alex Tirana e in quello di Alessio Spataro) altre più velatamente diretto (ZeroCalcare, Stefano Misesti) altre ancora più propriamente narrativo (Gianluca Romano, Toni Bruno) e personale (Claudio Calia).
Gli stili grafici sono molto spesso funzionali ai contenuti e al tono con cui questi vengono raccontati; si ottiene così una discontinuità di tratto e di intenti narrativi, ognuno messo a fuoco su un aspetto differente di una situazione comune. Quello che tutti i contributi hanno veramente in comune è il radicarsi ad una situazione reale, l’emergere da un’esigenza di cambiamento che spinge da troppo tempo. Perché - e cito la chiusa della storia di Gianluca Romano – Io lo so che una volta questa era una nazione e non un circo di pupazzi…

---
ANTIFA!nzine 1 (2011, Corto Comics, 48 pagine in bianco e nero, spillato, € 5.00).
Sceneggiatura e disegni di Alex Tirana, Toni Bruno, Stefano Misesti, Claudio Calia, Gianluca Romano, Zerocalcare, Alessio Spataro.

lunedì 30 maggio 2011

Intestino pigro

I tempi passati da quando promisi - e tentai - il ritorno a un aggiornamento costante sono stati piuttosto travagliati.
Alcuni dei motivi li scoprirete nei giorni a venire, altri li trovate qui sotto, assieme alla rinnovata promessa di nuovi entusiasmanti (e costanti, o similtali) aggiornamenti a venire. E poiché "non c'è provare", figuriamoci promettere, diciamo che ci saranno.
Nel mentre gioite con questi specialozzi realizzati per Comicus:
- Le 5 fasi. Recensione e megaintervista ai sei autori [roba che ulula]
- Billy Bat. Recensione in anteprima del nuovo lavoro di Naoki Urasawa [ormai non più in anteprima, ma a suo tempo lo era].

mercoledì 6 aprile 2011

La grande truffa del comic book

Qua ci sono spoiler.
Se a qualcuno frega ancora di Capitan America è bene che non legga. Ma considerando il contenuto, se a qualcuno frega ancora dopo aver letto forse sugli occhi non ha le fette di prosciutto, ha direttamente due maiali. Vivi.

Perché sono anni che si parla di manovre economiche dietro al mondo dei comic book. E, per carità, crisi e tutto il resto, le case editrici sono pur sempre aziende il cui compito è quello di vendere un prodotto. Che poi sia un prodotto tra i più belli che possa esserci sul mercato è un’altra questione, loro devono vendere una serie come se fosse una saponetta o una scatola di pasta, come vuole la teoria illuminata dell’editoria dagli anni ‘80- ‘90 ad oggi.
Detto questo c’è modo e maniera di fare le cose.
Puoi vendere realizzando storie ben fatte, che siano sensazionali e patinate ma coerenti con un percorso.
Oppure puoi vendere storie giocando sul sensazionalismo del momento e il traino di eventi esterni legati ad altri media.
Il caso di Capitan America è il secondo. Purtroppo.
Due giorni fa viene annunciato il lancio di Captain America 1, di Ed Brubaker e Steve McNiven. La nuova serie è una nuova serie vera e propria, non una rinumerazione tattica della vecchia serie, che proseguirà.
Cosa giustifica la presenza di una nuova serie?
In molti casi niente, solo la fama.
In altri cambi di rotta. È questo il caso. Dopo qualche anno di inganno editoriale Steve Rogers torna a vestire i panni di Capitan America dopo essere morto, resuscitato e riqualificato.
“L'idea – disse Brubaker – è sempre stata di portarlo indietro. Ma poi la storia della morte è stata qualcosa di molto grande e mi è stato dato il permesso di proseguire nell'esplorazione di un mondo senza Capitan America”
EH? Allora che senso ha che una volta tornato Rogers decida di smettere i panni di Cap e passi da supersoldato a superpoliziotto? E poi, di colpo, gli torna la voglia? Spiegatemi un po’, perché se l’emblema di una nazione è così tanto indeciso allora forse è il caso di dubitare di lui, del suo operato e della nazione che vuole incarnare.
E, soprattutto, di chi sta dietro a una cosa del genere. Perché il motivo è ancora peggiore della manovra. Il motivo è che Marvel voleva che ci fosse corrispondenza tra il Capitan America protagonista dell’omonima pellicola sul grande schermo e quello sulla carta stampata.
Che una manovra economica INTERNA potesse dettare legge su una trama poteva essere accettabile. Penso a One more day/Brand New Day sulle pagine di Amazing Spider-Man, o – per fare proprio un esempio banale e abusato – i continui ritorni di personaggi creduti morti. Era una mossa poco piacevole, talvolta brutta, ma era una decisione motivata esclusivamente da scelte narrative.
Nel momento in cui una manovra economica influenza una trama per motivi ESTERNI, come in questo caso, però, io credo che qualcuno dovrebbe fermarsi un attimo e fare due conti. Perché io posso accettare di essere preso per il culo da uno sceneggiatore che rileva una serie e decide che VUOLE un personaggio (recentemente è successo, su Uncanny X-Men 521-522, con Kitty Pryde, ad esempio) e lo resuscita, ma trovo inaccettabile che l’uscita di un film al cinema possa influenzare così tanto un personaggio.
E – giusto per dare un colpo al cerchio e uno alla botte – Dan DiDio al Wondercon ha lasciato intendere che Dick Grayson smetterà i panni di Batman e ritornerà a quelli di Nightwing. Quando di preciso non è chiaro, e del resto non c’è stata una notizia ufficiale, ma credo che lo sapremo entro il prossimo 20 luglio.

Non ho davvero nient’altro da aggiungere.

martedì 22 marzo 2011

Iron Man - Stark Resilient HC 1: PRO e CONTRO

Prima di tutto mi scuso con chi ancora ha la pazienza di leggere quello che scrivo. È stata una pausa lunga dettata da molteplici fattori, alcuni dei quali potrebbero venire affrontati su queste pagine prossimamente, altri invece del tutto esterni.

L’Universo Marvel è stato rivoltato come un calzino negli ultimi sette anni, da quando, con Avengers: Disassembled, Brian Michael Bendis si è seduto al timone delle trame portanti della House of Ideas.
Iron Man è stato nell’occhio del ciclone per tutti questi anni, fintanto che, con la fine di Secret Invasion, tutti i suoi errori gli si sono riversati addosso, rendendo “Tony Stark” sinonimo di fallimento, fuorilegge, fuggitivo e, infine, vegetale lobotomizzato.
La fine di Siege lo ricolloca al posto che gli spetta tra gli eroi, con un grosso vuoto di memoria, l’assenza di Extremis – il tecnosiero che costituiva una potentissima interfaccia tra Tony e l’armatura – e un impero economico azzerato dalle manovre di Ezekiel Stane.
Stark Resilient inizia d queste premesse: costruire una nuova armatura che possa sopperire alla mancanza di Extremis; ricostruire qualcosa di simile alle Stark Industries; ricostruire l’eroe che era un tempo. Il tutto a partire da zero.

Queste sono tutte le informazioni che vi servono per andare a capire il semplice discorso che andrò a fare. Una cosa di pro e contro, come detto nel titolo, che poi si esplica in due nomi: Matt Fraction e Salvador Larroca.
Fraction è il PRO. [Potrei finirla qui ma si merita un approfondimento].
Sono convinto che Matt Fraction sia, al momento, uno dei migliori sceneggiatori presenti alla Marvel. Bendis è, a mio avviso, troppo segnato da una serie di errori del passato. Brubaker mi convince a volte e a volte no. Carey sembra un gigante in una gabbia troppo piccola, cui non è data la possibilità di esprimersi. Kyle e Yost dopo Sex & Violence e Necrosha andranno rivalutati. Van Lente, Pak, Diggle… ognuno di loro ha qualcosa che non mi convince. Aaron grandi cose su Weapon X, pessimo su Ghost Rider. Lo Spider-trust al momento non so come se la passi. Hickman pure è un autore interessante, così come Way… ma scelgo di votare Fraction.
Se Invincibile Iron Man ha vinto un Eisner come miglior serie regolare tutto il merito è di Fraction. Uno scrittore che SA scrivere una storia interessante senza che sia eccessivamente complessa ma che al contempo non sia piatta. Soprattutto, ed è il caso di questa prima parte, sa scrivere una storia di supereroi solida e ancorata alla realtà. Questa prima parte di Stark Resilient ne è la prova: 104 pagine che raccontano un cammino di ricostruzione personale, in cui azione e confronto fisico vengono relegati a tre sole pagine (dedicate a personaggi secondari) e in cui Tony indossa l’armatura solo ed esclusivamente per spostarsi da un luogo all’altro. Tutto il resto è trovarsi ad affrontare le conseguenze di sette anni di costruzione editoriale, appunto, come si è detto prima, ricostruire la propria dignità di uomo ed eroe, le proprie industrie, trovare un obiettivo per il futuro. Un progetto, un’idea vincente, un team di collaboratori volenterosi e visionari che intendano cambiare il mondo con la scienza e, soprattutto, l’idea di abbandonare per sempre l’industria bellica – la grande macchia sul curriculum di Tony Stark – per buttarsi nel settore delle energie rinnovabili.
Al passo con i tempi difficili di una guerra che sembra non voler finire mai – l’Iraq che coinvolge gli USA direttamente, ma a voler ben vedere, riprendendo anche quanto detto nel primo storyarc I cinque incubi, tutti i vari conflitti ancora attivi sul pianeta – e sensibile (trasversalmente) a tematiche come l’inquinamento, la guerra energetica e (più direttamente, appunto) la questione della necessità di trovare nuove fonti di energia.
Poi è OVVIO che è solo la prima parte di un arco narrativo (anche se bisogna pur sempre considerare che nei quattro numeri qui compresi c’è il numero 25, uno di quei numeri che suonano molto di traguardo e che generalmente vengono accolti come eventi speciali) e che probabilmente nelle parti a seguire voleranno pugni, proiettili, colpi di repulsori ed esplosioni, le cose si romperanno, si sfasceranno, esploderanno e alla fine l’eroe, presumibilmente (anche considerando che siamo in piena Heroic Age), ne uscirà vincitore. Ma il dopo non ci interessa, ci interessa questo segmento specifico, questo volume che ha una propria stabilità e coerenza, la cui narrazione è in grado perfettamente di restare in piedi da sola.
Inoltre con questa parte di storia Fraction rinnova un simbolo aggiornandolo, eliminando lo scomodo collegamento con l’ambiente bellico e militare, troppo sconveniente e decisamente de-mitizzante di questi tempi.

Come dicevo all’inizio, PRO e CONTRO.
Larroca è il CONTRO. [Potrei finirla qui ma si merita una tirata d’orecchie].
Un disegnatore che sembra abbia perso l’interesse in quel che fa, che ha smesso di disegnare propriamente e ha abbandonato la magia di creare con il tratto in favore di un fotorealismo sempre più scarso; ok che il fumetto è un’espressione di una cultura popolare, e che eroi del passato avevano fattezze che ricordavano star del cinema, ma ora che Torny Stark abbia ESATTAMENTE lo stesso volto di Josh Holloway, o Pepper Potts di Nicole Kidman, mi sembra davvero eccessivo. Sempre meno linee, sempre più incerte. Il tutto lasciato al lavoro dei coloristi.

---
THE INVINCIBLE IRON MAN - STARK RESILIENT 1 (2010, Marvel Comics, 128 pagine a colori, cartonato con sovraccoperta, $ 19.99).
Sceneggiatura di Matt Fraction e disegni di Salvador Larroca.

mercoledì 2 febbraio 2011

Reclàm

Questa settimana la impieghiamo a reclamizzare il rilancio di Comics&co., blog/rubrica/altro hostato sul sito di parma.repubblica.it che è stata un po' la prima testata (nel senso vero e proprio di violento colpo di fronte) che ho assestato nella rete.


Dopo un anno e svariati mesi dopo "e mezzo" di Comics&co. così com'era ho sentito il bisogno di rinnovarlo un po', di inserire qualche appuntamento fisso per dare al tutto un po' più di stabilità. Perchè alla fine gestire una pagina "locale" sul fumetto, pur in una città che ha un buon numero di autori e un discreto numero di eventi, non è esattamente una cosa semplice. Si rischia sempre, a lungo andare, di ripetersi, di bloccarsi sulle stesse soluzioni, e dopo un po' si risulta pallosi.

Via, s'è già detto troppo. Vediamo se almeno noi si riesce a mantenere le promesse. Il re è morto viva il re e cose del genere.

mercoledì 26 gennaio 2011

10 cose che non dovrebbero mancare in un fumetto pt. 1: coerenza

da http://www.comix.it/

Non parlo di coerenza narrativa. Cioè, quello è ovvio, se non c’è si può andare tutti a spasso. Parlo di coerenza verso il sistema di riferimento e le sue leggi. È uno degli elementi che, secondo me, fanno la differenza tra il bravo scrittore [di fumetti ma non solo] e quello mediocre.
Ora farò un nome che tutti diranno “oooh, bella scoperta”, ma se si vuol capire qualcosa bisogna studiare prima di tutto il lavoro dei maestri. Anzi in questo caso il termine adatto è sensei.
Naoki Urasawa lo è senza dubbio [“oooh, bella scoperta”], un sensei. Perché costruisce storie che coinvolgono, che hanno un bell’intreccio non banale, ben elaborato, ricchi di richiami ad un sottotesto che l’autore riesce ad offrire – e non ad ostentare – al proprio pubblico per dare una caratterizzazione più vibrante a trame e segno.
Io Urasawa lo leggo da poco – mea culpa – ma fino ad ora non mi ha mai deluso. Per chi non lo conoscesse, il suo masterpiece è 20th Century Boys.
A te che non l’hai ancora letto [perlomeno fino all’ottavo numero dell’edizione italiana, numero a cui sono inesorabilmente arenato in attesa che Panini ristampi i numeri seguenti] e intendi fare sconsiglio vivamente di continuare a leggere quanto da me scritto. Se poi vuoi andare avanti e sei uno che odia gli spoiler a morte [come è giusto] poi non lamentarti.

Bene, potrà sembrare una cosa stupida ma c’è una cosa che mi ha fatto rendere conto di come Urasawa sia veramente uno scrittore come ce ne sono pochi.
Al quarto volume di 20th Century Boys la trama è già fitta e il lettore già conosce i protagonisti e parte della loro storia, oltre a quella del loro avversario, il capo di una setta/associazione che tutti gli affiliati chiamano l’Amico. L’Amico sembra perseguire la distruzione del mondo, o qualcosa che ci va molto vicino, o qualcosa che necessita della distruzione del mondo per avvenire. Per fare questo, dopo una serie di attacchi batteriologici e l’esplosione del vecchio aeroporto di Tokyo, l’Amico ha bisogno di un robot per attaccare la città.
Se pensiamo a qualsiasi robot di fumetti o anime il risultato oscilla tra una scatola metallica e uno snello ibrido tecnorganico, che è sempre forte, agile, veloce e quant’altro. Chi disegna robot deve fare attenzione a molti aspetti ed elementi pratici, tecnici, meccanici e – spesso ma non sempre – fisici. È una cosa di cui mi sono reso conto quando ho assistito (era il settembre 2009, a Padova Art&Comics) a una dimostrazione di Francesco Frosi sul disegnare i robot: cosa doveva muoversi e come influenzava forme, dimensioni, innesti e in certi casi necessitava una protezione ulteriore, perché più fragile rispetto alle parti “lisce”. Ve l’ho resa molto sintetica ma il succo era che un robot doveva essere pensato e disegnato senza mai perdere di vista come una parte dovesse muoversi e agire in rapporto alle altre.
Questo da un punto di vista “grafico”. Ma da un punto di vista concettuale?
In un fumetto di fantascienza ambientato nel futuro probabilmente esistono leghe metalliche iperresistenti e al contempo leggerissime, che permettono di realizzare titani di metallo completamente in grado di reggersi da soli senza frantumarsi sotto il loro peso.
In un fumetto di ambientazione contemporanea che vuole essere verosimile [e ce lo dimostrano i suoi riferimenti al mondo reale che vuole esserlo] questo è possibile?
Non vi arrovellate, la risposta è NO.
Ed è qui che si torna a Urasawa e 20th Century Boys. I piani dell’Amico per il robot sono basati sui cartoni animati di robottoni degli anni ’60-’70. Le stesse persone che, nell’ottavo capitolo del quarto volume, troviamo riuniti attorno ad un tavolo per discuterne i dettagli, provengono presumibilmente da un simile retaggio immaginifico. Si preoccupano di come comandarlo, di quali armi servirsi, o quale sistema propulsivo sia migliore per farlo volare; addirittura portano come modellino un robot giocattolo, pensandolo una buona riduzione.
La coerenza di Urasawa sta in quello che dice il professor Shikijima, scienziato rapito appositamente per la costruzione del robot:

Voi continuate a parlare di costruire un robot di cinquanta metri, ma tutto ciò è ridicolo!! […] Un robot tanto grande esiste solo nei cartoni animati!! […] Anche se fosse alto cinquanta o quaranta metri… difficilmente un coso simile potrebbe volare… se analizzaste il lancio dei razzi spaziali dovreste capirlo. […]
Cosa credete che succeda ingrandendo il vostro modello di diverse decine di metri? Le gambe non potrebbero sopportare il tronco e cadrebbe schiacciato dal suo stesso peso. […] Non avete considerato i sobbalzi causati dalla camminata. Con quelle gambe, se qualcuno dovesse trovarsi all’interno della sua testa subirebbe un gran numero di urti e soffrirebbe di un terribile mal di mare… la cabina di guida si riempirebbe subito di vomito. Partiamo dall’assunto che è impossibile ingrandirlo lasciandogli quelle gambe. Sarebbero più opportune delle ruote... già potremmo usare dei carri armati.

Non credo che, a questo punto, ci sia molto da aggiungere. Urasawa ha realizzato che un robot fantascientifico non potesse entrare in nessun modo in una storia verosimile. Molti avrebbero probabilmente trascurato la cosa e avrebbero inserito l’elemento robottone. Urasawa risolve invece la cosa in modo coerente con i nostri tempi, e così quando tra il settimo e l’ottavo volume ci rivela le reali fattezze del robot, per quanto inquietante non si può che abbozzare un sorriso: un pallone aerostatico, di fatto, montato su due rozze gambe meccaniche che simulano una camminata grazie a cingoli che funzionano alternatamente. Una “bestia” grezza e impacciata – ma non per questo meno letale – che rispecchia il nostro grado di evoluzione, e non chiede (e non dà) di più di quello che i nostri tempi possono fare.

martedì 18 gennaio 2011

Di fantascienza, vuoti e altre citazioni

Quando leggi un fumetto ci sono cose passibili di interpretazione e cose no. Cose che l’autore ti mette lì, filtrate, che basta prendersi la briga di fare due ricerche, e cose che invece potrebbero essere, significare, alludere a.
È un’idea che mi pare si adatti bene a Ignition City. Su un livello zero troviamo la narrazione principale, una storia di fantascienza/avventura vecchio stampo, che se da un lato può ricordare i momenti “a terra” dei film di Lucas, dall’altro strizza l’occhio allo steampunk (ma solo nell’estetica, il vapore non ha chiaramente casa in queste pagine, motivo per cui si può parlare di dieselpunk) e all’avventura tradizionalmente intesa come viaggio di scoperta. Protagonista è Mary Raven, figlia del famoso astronauta Rick Raven, arrivata ad Ignition City dopo la morte del padre, per indagare e raccoglierne l’eredità. Ignition City è una curiosa città-isola-spazioporto, attualmente chiusa ai voli spaziali, che per la sua particolare funzione e popolazione (umani ex-esploratori e alieni) viene considerata già spazio profondo.
È un’epoca di rivoluzionamenti, quella in cui si ambienta la storia: un 1956 in cui la seconda guerra mondiale è ancora un focolaio ardente, o meglio era, prima che gli alieni irrompessero sulla Terra scombussolando le carte. Conseguenza principale di questa mossa è l’arresto – eccezion fatta per l’Inghilterra – dei voli spaziali.
A qualcuno questo potrà aver fatto suonare qualche campanello, infatti i personaggi della storia – eccezion fatta per Mary – sono derivati dai prodotti di fantascienza e avventura degli anni ’20-’50. Buck Rogers, Dan Dare, Flash Gordon, Commando Cody (o quello che sembra un misto di Commando Cody e Rocketeer, il cui volto umano tanto ricorda quello di Timothy Dalton, che impersonò il malvagio Neville Sinclair nella pellicola di Joe Johnston). Insomma, i riferimenti sono tanti e sulla grande piazza di internet potete trovarli, quindi è abbastanza inutile che io stia qui a fare sinossi di questa lega degli straordinari esploratori allo sbando targata Warren Ellis e Gianluca Pagliarani. Una carrellata di avventurieri del passato, che lo scrittore ci presenta qui logori e corrotti dall’obbligo di una vita a terra.
Tra i tanti eroi di carta e celluloide troviamo poi il primo cosmonauta, Yuri Gagarin, anche lui bloccato a Ignition City senza possibilità di ritornare alle stelle (benché nel ’56 Gagarin non fosse nemmeno diplomato all’Accademia Aeronautica, ma questo è chiaramente un riflesso della commistione culturale terrestre con quella aliena, che ha chiaramente portato il pianeta ad un più rapido avanzamento tecnologico).
Lo stesso stile di Pagliarani - che inizialmente non mi convinceva troppo, devo dire, ma poi ho dato la colpa alla colorazione - sembra qui avere alcuni tratti di certo fumetto d'avventura anni '20-'30; accenni di tratteggio che possono ricordare quelli di Dick Calkins, volti non troppo appesantiti nel segno, quasi a voler sottostare agli spazi di una strip in bianco e nero dalla qualità di stampa discutibile. Tutti elementi che, di certo, si sarebbero notati meglio senza la colorazione.

Dietro ai complotti e alle speculazioni, quindi, sembra celarsi un messaggio più grande: abbiamo smesso di guardare allo spazio, abbiamo smesso di sognare, abbiamo abbandonato l’avventura per il piacere della scoperta, della novità. La fantascienza (sia essa su carta o su schermo, piccolo o grande) o muta in un sottogenere di analisi dell’individuo, della società, si interroga sull’individuo, sui problemi del mondo, sui grandi vuoti. Che sia un bene o che sia un male, che piaccia o no, non c’è più l’avventura di una volta (prima che lo scriva qualcun altro), l’avventura – si potrebbe dire – fine a se stessa. Certo, non è che poi Ellis lavori diversamente, se la vogliam vedere così: Ignition City è un fumetto di fantascienza che ci testmonia la malinconia dell’avventura old school, NON attraverso una storia avventurosa tout court, ma attraverso un mix di indagine e azione che fa riferimento ad una mancanza.

---
IGNITION CITY (2010, Avatar press - edito in italia da edizioni BD, 144 pagine, € 13,00).
Sceneggiatura di Warren Ellis e disegni di Gianluca Pagliarani.