lunedì 29 marzo 2010

venerdì 19 marzo 2010

IN CARNE E OSSA

IN CARNE E OSSA (2008, Double Shot, brossurato, 144 pagine in bianco e nero, €10,00).
Sceneggiatura e disegni di Koren Shadmi.

Koren Shadmi è al momento uno dei massimi esempi, credo, di metafisicizzazione dell’aspetto biografico.
Prendete in mano In Carne e Ossa, sfogliatelo e ve ne renderete conto.
Racconti brevi, meno di una trentina di pagine, si avvicendano uno dopo l’altro presentando storie che uniscono la potenza emblematica e inquietante del racconto breve americano assieme ad una visionarietà tutta personale, che gioca con il distorto, il bizzarro, l’assente.
Partendo da episodi – come emerge nell’intervista a fine volume – di matrice autobiografica, Koren Shadmi rielabora, filtra, distorce e manipola la realtà del suo vissuto personale, rendendo il reale elemento autobiografico totalmente celato e lasciando intravedere soltanto la problematica di base, concretizzandola poi simbolicamente sia da un punto di vista grafico che da un punto di vista concettuale.
Questi racconti vogliono riflettere principalmente sulle relazioni umane, principalmente sulla loro difficoltà, sul modo in cui basta un elemento apparentemente anche piccolo perché queste relazioni mutino in modo irreversibile. Identità e relazioni, sé e altro da sé, manie e vizi, l’interazione tra due persone e i suoi risvolti. Il giovane autore israeliano ci mostra le sfaccettature dell’animo umano.
Simbolico in modo intelligente, Shadmi non si fa problemi a servirsi di elementi fantascientifici o horrorifici, espedienti tipici del fumetto supereroistico (vedi La Ragazza radioattiva) o granguignolesco per camuffare ancora di più le situazioni del mondo reale, in un crescendo di poeticità che raggiunge l’apice con il racconto Crudeltà.

domenica 7 marzo 2010

Qualche chiarimento...

Ho ritenuto doveroso rispondere a quello che credo sia essere un’incomprensione, una gaffe o più semplicemente un errore dettato dalla fretta, non so dire bene quale dei tre.

Innanzitutto: non era mia intenzione fare una classifica delle fiere del fumetto, cosa per cui (anche volendo e anche ammettendone la possibilità) non avrei abbastanza esperienza. Quello che intendevo fare era considerare come il “mondo del fumetto” abbia diversi modi per autopromuoversi e mi tornava comodo prendere esempio dall’ultimo periodo, particolarmente ricco di manifestazioni.
Di qui il nodo gordiano. Cosa avrò mai voluto dire con quel “nobile” riferito a Bilbolbul?
Premetto che non ho legami con case editrici, o con organizzatori né con chicchessia altri che abbia a che fare con la fiera bolognese quindi, per rispondere ad Alessandro Bottero, no, non stavo cercando di condizionare in alcun modo i lettori a scegliere Bologna piuttosto che Sarzana. Senza contare che, durante il suo periodo piacentino, ho partecipato tutti gli anni a Fullcomics e l’ho trovata piacevole e in crescita, specialmente l’anno passato.
Perché “nobile”? Non certo in quanto a lignaggio, né in quanto migliore di un’altra fiera. Il motivo per cui ho definito – forse troppo frettolosamente – la fiera bolognese come “più nobile” era semplicemente legato ad una modalità di promozione fortemente scollegata dall’aspetto commerciale. Chiunque sia stato negli anni a Bilbolbul avrà visto come lo spazio vendite sia unico e spazialmente limitato, a differenza delle altre fiere, dove all’ingresso ci si trova davanti agli stand di editori e venditori.
Roberto Recchioni, che stimo come scrittore e del quale, pur avendolo scoperto un po’ in ritardo, apprezzo molto il lavoro, porta la questione della “nobiltà” in relazione agli ospiti presenti a Mantova, Sarzana e Bologna. Niente a che vedere con la mia (forse errata) etichettatura. Non intendevo mettere sulla bilancia gli ospiti.
Io leggo fumetti da ormai diciassette anni e quello che leggevo dieci anni fa lo leggo ancora adesso; a questo si è aggiunto quello che ho imparato a conoscere in questi anni. Ho iniziato con L’Uomo Ragno e la Marvel, Dylan Dog e la Bonelli; poi i manga, poi DC Comics e poi gli autori italiani e francesi e argentini, e mi emoziono leggendo David B. o Koren Shadmi allo stesso modo in cui mi emoziono a leggere DMZ, un fumetto di supereroi, Pluto o una buona storia targata Bonelli,allo stesso modo per cui mi prendono le tavole di Paolo Castaldi, i disegni di Matteo Scalera o una qualsiasi autoproduzione che sia ben fatta o ben ragionata.
Sono uno di quelli che non si fanno problemi a leggere quello che capita, che non giudicano a priori e che si sforzano sempre di trovare il lato buono di una storia, fin dove è possibile e forse un po’ più in là; uno di quelli che compra tutto quello che riesce a comprare, fin dove i soldi lo permettono; i negozi dove compro mi sono testimoni di questo.
Sono stato a Mantova Comics E a Fullcomics E a Bilbolbul, e non mi sento di affermare che l’incontro di Gipi, Andrea Bruno e Goffredo Fofi sia più importante del secret panel di Paninicomics o delle novità di Freebooks o Viollier.
Quindi non so cosa Recchioni dica di aver capito di quello che forse è stato semplicemente un piede in fallo terminologico.

Quello che mi ha sempre colpito della fiera di Bologna, lo ribadisco, è il modo in cui la città sia coinvolta e respiri fumetto e animazione (ovviamente forse questo è più evidente se uno sa che c’è), perché incontri, presentazioni, mostre e proiezioni, sono sparse per la città e non sono concentrate in un solo punto, per quanto grosso sia. Non è dunque l’assenza di un biglietto, ma la sua accessibilità ad essere, secondo me, il suo punto di forza, perché apre le porte del fumetto a chiunque passi da quelle parti. E credo che questo sia una modalità di promozione forte.

Ovvio che questa è solo una fetta, e che il fumetto non può progredire sulla sola speculazione; è necessario qualcosa che sia complementare, che si occupi del resto del mercato. Mantova Comics quest’anno era principalmente la patria degli autori italiani che hanno lavorato per l’estero (ma non solo), Fullcomics è un gigantesco riflettore puntato sull’editoria non mainstream, sugli autori esordienti e sulle autoproduzioni, alcuni dei quali saranno – si spera – i grandi autori di domani. Sono aspetti differenti del fumetto, come ben ribadisce anche Bottero, e – per l’ennesima volta – non era AFFATTO mia intenzione fare comparazioni.
Giusto per chiarire tutto. Il “Nel mezzo” che introduce il paragrafo dedicato a Mantova e Sarzana non vuole essere un “tra il figo e il non figo” ma, piuttosto, tra “far vedere il fumetto” e “farlo comprare”; non sono un grande fan delle mostre mercato ma credo che anche quelle abbiano la loro importanza per recuperare letture perdute o scoperte troppo tardi.

Alla fine di tutto questo, quindi, mi scuso se sono stato impreciso, affrettato, superficiale o “maleducato”.

Alfredo Goffredi.

venerdì 5 marzo 2010

DAREDEVIL - THE RETURN OF THE KING

Devil & Hulk 154-158 (2009-2010, Paninicomics, spillato, 72 pagine a colori, €3,30).
Sceneggiatura di Ed Brubaker, disegni di Michael Lark, Stefano Gaudiano, Klaus Janson, Chris Samnee & Paul Azaceta.


Cosa è cosa?
Chi è chi?
Chi è cosa?

I due fili su cui è possibile inquadrare la produzione (super)eroistica, a mio parere, sono quello cosiddetto della crisi e quello dell'identità.
Il primo, come più volte ribaduto, ha a che fare con l'equilibrio locale (mi piace prendere come punto di partenza il Dick Tracy di Chester Gould) e via via con quello internazionale (da quando il vigilante diventa super- in poi).
Il secondo è quello dell'identità: se considerata a grandi blocchi la produzione (super)eroistica ci riporta - spesso guardandola in parallelo con la situazione internazionale - la concezione dell'identità di un popolo, di un paese o di una cultura (e questa, di fatto, è una lettura che attraversa, in un modo o nell'altro, volenti o nolenti, la totalità della produzione fumettistica).

Daredevil.
Al momento è per me uno degli emblemi del cambiamento, non so quanto forte, non so se più o meno forte di altri ma uno di quelli, senza ombra di dubbio.
Inquadriamolo in un universo editoriale in cui:
- i cattivi sono diventati i buoni e i buoni sono, nel migliore dei casi, disprezzati;
- Norman Osborn (Goblin) è il capo dei "nuovi buoni", che, se vogliamo scherzare con le parole, possiamo chiamare "i bravi" (Venom/Scorpione è Spider-Man, Daken è Wolverine, Moonstone è Miss Marvel, Bullseye è Hawkeye, e lo stesso Osborn, con il nome di Iron Patriot, è un misto tra Cap e Iron Man);
- Spider-Man è stato resettato da One More Day e Brand New Day;
- Cap è morto ed è stato sostituito da Bucky;
- i mutanti come al solito sono per i fatti loro e sono comunque pochi, sempre meno;
- c'è un Hulk rosso cattivo;
- Strange non vale più nulla e Hood, stregone pazzo e a capo del più grosso cartello del crimine, sta cercando di diventare il nuovo stregone supremo;
- Tony Stark è ricercato (dai "bravi");
- Thor è stato spodestato dal trono di Asgard, ha perso il potere di Odino ed è allo sbando mentre Loki, di fatto, regna su Asgard manipolando Balder e i Mighty Avengers (la formazione più bislacca che io abbia mai visto), attraverso una finta Scarlet;

E in tutto questa confusione cosa succede a Matt Murdock? Matt Murdock sembra non riuscire a combinarne una giusta dai tempi in cui si espose, rivelando la propria identità a Hell's Kitchen e divenendo il nuovo Kingpin. Ogni mossa apparentemente buona del diavolo rosso si è rivelata sempre un piede in fallo.
All'epoca però la situazione era differente, alle redini della serie sedeva ancora Brian Bendis e l'Universo Marvel non era ancora così complicato come sembra ora, anche perchè, scaramucce o meno, i buoni erano ancora i buoni, così come i cattivi erano ancora i cattivi.
Se l'autonominarsi di Matt Murdock a nuovo Kingpin poteva sembrare una mossa dubbia, le ultime cartucce di Ed Brubaker rovesciano totalmente ogni prospettiva, allineandosi con la logica del confondimento che al momento (divide e) impera alla Marvel, e lo fa anche a livello narrativo.

Fin dall'inizio, infatti, The Return of the King sembra una storia su Kingpin. Ci mostra come ha trascorso gli anni di "esilio" in Spagna, il motivo del suo ritorno e le trame da lui inscenate per ritornare al vertice.
E poi tutto scoppia come una bolla di sapone con troppa aria dentro, nel momento esatto in cui Matt Murdock avanza la propria candidatura a Re (curiosa carica) della Mano, organizzazione criminale di matrice nipponica installatasi un po' in ogni angolo del mondo. Candidatura che, oltretutto, viene accettata - così come le condizioni poste da Matt - nelle ultime battute di una saga che lascia una pesante eredità al nuovo insediato sul trono, Andy Diggle.

In un mondo il cui il più grande cattivo diventa il capo dei "bravi", l'emblema massimo del conflitto interiore supereroistico (l'avvocato/vigilante) arriva a ricoprire la più alta carica di una delle più potenti organizzazioni criminali.
Se, dunque, il male diventa bene è giusto ricoprire il trono lasciato vacante per poterlo combattere? è necessario che la distinzione bene/male rimanga netta in modo che gli schieramenti - seppur con segno cambiato - rimangano gli stessi e non sembra che il cane si stia mordendo la coda da solo?
E quale sarà la percezione di questo cambio di segno? Quale la sua intenzione più profonda?
Se il diavolo rosso fosse preso come emblema degli USA (ipoteticamente), ci rimanderebbe a un'America che - per farla il più semplice possibile - da buona diventa cattiva. Utilizzandolo invece come avatar della situazione internazionale suona un po' come il detto "a mali estremi, estremi rimedi", o "il fine giustifica i mezzi", quasi a voler legittimare una scelta.
Comunque lo si guardi, tuttavia, qualunque sia il valore che gli si vuole dare, il senso profondo è quello del ribaltamento delle prospettive.
Un caso più recente (poco più di una settimana fa) e ugualmente interpretabile è accaduto in casa DC, quando la chiusura del settimo numero di Blackest Night ha insignito Sinestro della carica di Lanterna Bianca, a incarnare - in contrapposizione a Nekron e alle lanterne nere - il sommo bene. Temporaneo o duraturo, apparente o concreto, è solo un altro caso in cui si assiste a un'inversione di status. Certo, è accaduto anni addietro, ma principalmente con personaggi secondari (se eccettuiamo, per prenderne uno e uno, i momenti legalisti di Magneto e la lunga parentesi di Hal Jordan nei panni di Parallax).
Ma il senso profondo di questo? Perdita dichiarata di un sistema riferimento, probabilmente, causata dalle fratture tra popolo e istituzione, dalle problematiche legate alle guerre o, ancora, dalla crisi definitiva del sogno americano. Forse. E allora, di conseguenza, si potrebbe riscontare una mancanza di fiducia complessiva nata dal dubbio. Come già in Civil War e Secret Invasion il dubbio rimane: se non riesco a capire chi è buono e chi è cattivo di chi mi posso fidare?